Rosa C.

“Puoi venirci a vivere tu.” Avevo detto a Chiara mentre le spiegavo che avevo intenzione di cambiare casa.
“Per me è troppo grande, cosa ci faccio qui da sola?” Avevo continuato.
“Mamma sei sicura?” Mi aveva risposto lei.
Non lo so, avevo detto tra me e me. Non era una scelta del tutto razionale ma sentivo che era giusto provarci. La nostra casa era comoda, tre stanze da letto un soggiorno spazioso, due bagni, la cucina abitabile, il balcone. Era la casa in cui avevo cresciuto i ragazzi, le pareti sapevano dei nostri malumori e il pavimento aveva accolto l’ansia e l’euforia. Ora occupo questo spazio da sola. Pietro studia in Belgio e non credo che tornerà; mio marito ha deciso di andarsene prima di me, dissero che non aveva sofferto, forse non se ne rese conto, pare un malore mentre guidava. Siamo stati bene, mi manca. Ho aiutato tante persone a superare l’abbandono, tra i ragazzi è difficile. Vengono in studio e sembra che non vogliano parlare, guardano in basso, si siedono sulla sedia e dondolano le gambe. Si toccano i capelli e dicono sì o no con la testa. Poi c’è la volta in cui piangono, allora significa che si fidano, da quel momento comincia il percorso. A me ha aiutato Milvia. Lei non lo sa ma le cene a casa sua una volta a settimana sono state come un percorso di psicoanalisi. Mi telefonava con la scusa di avere notizie di Pietro.
“Quel ragazzo è in gamba, l’avevo capito quando gli davo ripetizioni di latino.” Diceva ogni volta che gli comunicavo un suo buon voto all’università.
“Vieni a cena domani sera?” Mi chiedeva prima di chiudere.
In genere andavo di mercoledì, avevo l’ultimo paziente alle diciannove, e per le venti arrivavo da Milvia.
“Ho provato una nuova ricetta.” Mi accoglieva così.
Parlavamo per ore, mi raccontava dei suoi studenti, mi citava le opere di Catullo, mi diceva gli ultimi pettegolezzi che aveva sentito nel negozio di Viola.
“A proposito, dovresti andare da lei. Saprebbe consigliarti bene sul colore.” Me lo disse una sera e seguii il suo consiglio, c’era bisogno di rendere più caldo il mio castano.
“Parlane con tuo marito.” Dissi a Chiara. “Credo che per voi questa casa sarebbe perfetta.” Continuai.
“Lo credo anche io ma vorrei che tu fossi sicura.” Mi disse lei.
“Lo sono.” Lo dissi a lei per dirlo a me stessa.
Salutai mia figlia e capii di avere preso la mia decisione. Mi sentivo come quando ero rimasta incinta di Chiara, non avevo ancora finito l’università e sapevo di avere di fronte un paio di anni di specializzazione, credevo di non farcela ma poi è arrivata tutta quell’energia. Io e mio marito vivevamo in una mansarda in via Pilo, non c’era l’ascensore e ogni sera facevo gli scalini a due a due per arrivare a casa in fretta e preparare la cena. Guardavamo gli annunci sul giornale, Tiziano aveva avuto una promozione e avevamo deciso di cercare una casa nostra. La trovammo nel giro di 4 mesi, e riuscimmo ad entrare prima che Chiara nascesse. Pietro arrivò dopo dieci anni, lo studio era avviato, mio marito aveva un ottimo impego così decidemmo di comprare l’appartamento di fianco, volevamo una casa più grande per lasciare qualcosa ai nostri figli.
A Chiara la casa di città e a Pietro il casale in campagna; l’aveva deciso Tiziano e io ero d’accordo.