La scarola secondo Antonino Cannavacciuolo

Ho avuto l’occasione di trascorrere una meravigliosa serata a Villa Crespi sul lago d’Orta. Nella cornice fiabesca della villa di fine ‘800 ho gustato la cucina del grande chef Antonino Cannavacciuolo che mi ha deliziato con un’esperienza sensoriale che di certo ricorderò. Ho apprezzato l’equilibrio dei sapori, la scelta sapiente degli accostamenti studiati per soddisfare il gusto ma anche la vista e l’olfatto il tutto per accompagnare l’ospite alla scoperta di frontiere inesplorate. Alla fine della cena, mi sono alzata per andare fuori a respirare l’aria del lago in una serata estiva che, complice la bassa temperatura dell’ultima settimana e quella pioggerella che si confonde con la foschia lacustre, sembrava ottobrina. Nel patio, vicino ad una delle colonne ho incontrato lo chef. Forse anche lui voleva respirare l’aria di quel lago che da tempo è diventato anche un po’ suo; sul suo volto ho colto la serenità di un grande artista che si riposa dopo avere terminato la sua opera. Mi sono avvicinata ed è nata questa conversazione.

Ratatuia Metropolitana: Complimenti, ho trovato la cena eccellente. Mi è piaciuta molto la scelta del menù e ho apprezzato gli accostamenti che ha proposto. Ho trovato meraviglioso il risotto al tartufo. Mi piace il tartufo ma credo che non sia facile dosare gli ingredienti, trovare l’equilibrio per un piatto del genere. Il suo era semplicemente perfetto.

Antonino Cannavaccuiolo: Grazie, mi fa piacere.

RM: Ho apprezzato anche ciò che avete servito durante l’aperitivo. In particolare quel canapè con il petto d’anatra, c’era un’erba strana che sembrava quasi una decorazione ma che dava un sapore così originale. Cos’era?

AC: Un piccolo germoglio.

[Ho insistito ancora un po’ ma poi ho capito che lo chef non svela i suoi segreti quindi non so quale germoglio fosse, la mia ricerca continua. Forse prima o poi troverò la risposta.]

RM: Sempre tra gli aperitivi c’era una cosa che non ho capito. Era un liquido verde che ricopriva un cuore di formaggio morbido che mi sembrava stracciatella. Cos’era?

AC: Quella era scarola liquida accompagnata da stracciatella.

RM: Scarola? L’ho trovata un po’ troppo amara per il mio gusto.

AC: Era quello l’intento, la scarola ha quel gusto amarognolo. Io la conosco da sempre perché a Napoli si usa molto però bisogna fare attenzione perché la scarola divide il mondo in due: o piace o non piace. Se qualcuno non vuole rischiare ci mette l’uva passa che rende tutto più dolce ma secondo me è troppo banale.

[A questo punto la tentazione era forte e non ho resistito così mi sono lanciata in una mia libera interpretazione]

RM: E provare con qualche goccia di lime?

[Lo sguardo dello chef è stato eloquente e io avrei voluto rimangiarmi ciò che avevo detto, ma come mi è venuto in mente il lime? Forse per il suo colore verde? Non saprei ma ho capito che è stata una vera e propria eresia.]

AC: No, il lime no. Al più, se proprio si vuole trovare qualcosa che renda il tutto più dolce, si può utilizzare un gambero. Lo stesso piatto con al centro un gambero, così sì che l’equilibrio tra i sapori funziona. Stasera non l’ho fatto, ho voluto lasciare spazio alla scarola.

L’ha detto con fierezza, come se volesse restituire una dignità alla scarola, a questa pianta decisa e coraggiosa che non cerca mezze misure ma che si fa amare o odiare.

Tornando a casa ho pensato che il cibo può svelare molto del carattere di una persona, ciò che ci piace restituisce un messaggio su ciò che siamo. A me piacciono i gusti amari ma li amo quando sono accompagnati da qualcosa che li addolcisce, mi piace sentirli per primi e assaporare qualcosa di opposto che resti più a lungo come retrogusto.

Un po’ come nella vita, quando mi chiedono se voglio sapere prima la bella notizia o la brutta. Scelgo sempre di iniziare con la brutta perché poi la buona dura più a lungo.

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