Mi hanno portata a cena al Manna di Matteo Fronduti, ho mangiato molto bene, in un locale semplice, minimalista nella scelta dell’arredamento, e con un servizio ottimo. Lo chef ha partecipato al nostro convivio. Ci ha accolto, ha chiesto se avevamo domande sul menù ed è passato un paio di volte al tavolo per verificare che fossimo soddisfatti della nostra scelta. Non l’ha fatto solo con noi, è il suo modo di gestire il locale, con tutti gli ospiti si comporta così. Dicevano che fosse un burbero, non sono d’accordo, ho incontrato una persona schietta (questo sì), molto competente e appassionata del proprio lavoro.
Ratatuia Metropolitana: Come mai ha scelto questi nomi per i piatti? Alcuni sono dei riferimenti un po’ datati, ad esempio Kunta Kinte, non so chi se lo ricorda.
[Ndr. Kunta Kinte è il titolo di un piatto a base di radici che ho trovato delizioso.]
Matteo Fronduti: Io me lo ricordo. In ogni caso questa è una cialtroneria.
Lo dice con trasparenza e serietà. Mi chiedo perché abbia voluto utilizzare proprio quella parola per descrivere il vezzo di dare nomi strani ai piatti (ad esempio Uè testina; Contro il logorio della vita moderna, De sera e de matina…). Leggendo avevo pensato a quelle abitudini tipiche delle osterie, dove si vuole ammiccare al commensale attraverso un titolo evocativo che possa rubare un sorriso. Lui è stato schietto e il sorriso me l’ha rubato.
Alla fine della cena, complice il fatto che fossimo gli ultimi a lasciare il tavolo, si è seduto con noi e ho continuato la conversazione, abbiamo iniziato dandoci del tu.
RM: Quando hai iniziato a cucinare?
MF: Ero al liceo. Studiavo e lavoravo nell’azienda dei miei, era una piccola impresa metalmeccanica e mio padre mi vedeva già ingegnere meccanico impegnato a portare avanti il suo progetto. Io avevo un amico che faceva l’alberghiero e ci trovavamo nel fine settimana per cucinare; invitavamo un mare di gente, sono arrivato ad avere quasi duecento persone in casa con tutto ciò che ne consegue, polizia compresa. Poi sono andato in giro per imparare e dieci anni fa ho aperto questo ristorante.
RM: Hai scelto una zona un po’ appartata per la tua attività.
MF: Sono fuori dai circuiti modaioli dove si paga un botto per l’affitto. Pensa che in questo locale c’è sempre stato un ristorante, fin dai primi anni del millenovecento, questo è il quinto in più di cento anni. Non male non credi? Io voglio fare una cucina di qualità, voglio dare un buon prodotto a un prezzo sostenibile; ho scelto di stare qui perché non posso tagliare i costi del personale o delle materie prime ma quelli dell’affitto sì. E poi sai cosa ti dico? Meglio stare un po’ imboscati, in un posto dove la gente viene perché sa che cosa cerca.
RM: Una specie di caccia al tesoro?
MF: Consapevolezza. Se sei in una zona in cui la gente passa ed entra da te come se fosse un posto qualsiasi corri il rischio di non potere soddisfare il tuo cliente. La mia è una proposta e accolgo volentieri chi è interessato ma non sono il genere di locale in cui entri per mangiarti che so un’insalata.
RM: c’è un ingrediente al quale sei particolarmente legato?
MF: No. Io lavoro sull’idea. Ora ad esempio sto pensando a qualcosa di decadente, cerco un piatto che esprima il nostro tempo e ciò che sta accadendo. Ho fatto qualche prova ma il piatto non è ancora finito, ci sarà la mortadella, questo te lo anticipo, e verrà cucinata in un modo particolare. E poi…vabbè lo vedrai quando verrai a trovarmi dopo il cambio di menù.
RM: Quindi parti da un’idea per elaborare un piatto?
MF: Sì, penso a qualcosa che voglio comunicare, sempre nel rispetto dei miei ospiti e avendo cura di dare loro qualcosa di buono e mangiabile, immagino, provo, sperimento e gli ingredienti sono al servizio dell’opera.
Saluto Matteo e mentre torno a casa rifletto sull’idea. Trovo il suo approccio molto simile a quello di un pittore che immagina ciò che vuole comunicare e si mette davanti a una tela bianca pronto a riempirla di colori. Credo che ci sia una grande passione dietro alla sua professionalità, è come se non avesse potuto fare nient’altro nella vita se non quello che fa. Per questo comprendo la sua aspettativa, è giusto che ci sia consapevolezza in chi va a sedersi alla sua tavola, così come c’è in chi decide di andare a vedere una mostra di René Magritte.