“Ho caricato la macchina e sono scappata a Londra!”
Stefania partiva da Torino, aveva deciso di lasciarsi alle spalle il Politecnico e il paese di provincia in cui era cresciuta; voleva inseguire l’amore, quello per un uomo, che è diventato suo marito, e per una professione che ancora non conosceva ma che era già parte integrante di lei. Trent’anni fa, in quella grande città all’avanguardia, iniziò a lavorare in un negozio che vendeva mobili particolari, di quelli che non tutti comprano ma che lei sapeva valorizzare all’interno di un’abitazione.
Dopo la metropoli il ritorno in Italia. Caricarono la stessa macchina, quella della prima fuga, e si spostarono a Treviso. Fu una scelta dettata dalle circostanze, c’era un appartamento in cui rifugiarsi e il lavoro non mancava. Non fu semplice, la coppia non aveva regolarizzato l’unione e le famiglie faticavano a dialogare; probabilmente fu un passaggio necessario, una sorta di messa in panchina in attesa dei minuti di gioco decisivi. Quelli arrivarono dopo circa un anno, a Milano. È qui che nasce l’idea di NapAtelier, esattamente venticinque anni fa nella Porta Venezia del design.
Insieme al negozio arrivò la prima figlia, il lavoro aumentava, nacquero altri negozi e le altre figlie. Bergamo, Brescia, e diverse località sull’A4, fino ad arrivare in Veneto. Esplorazione di luoghi in cui scoprire delle realtà artigiane che producevano pezzi di arredamento da modificare. Quasi come se fossero delle tele bianche da dipingere, Stefania manteneva la forma ma sceglieva i colori, dava una personalità a quel mobile plasmando lo spazio che andava ad occupare.
“Faccio case.” Mi dice quando le chiedo di spiegarmi meglio la sua professione.
Comprendo che c’è passione, creatività ma soprattutto visione. Stefania ha la capacità di vedere ciò che agli altri viene celato. Il senso estetico, la costante ricerca della bellezza e dell’armonia tra lo spazio esteriore e quello interiore, la porta a individuare ciò che fa sentire bene. Definisce e prepara il luogo più intimo, la casa, in modo che la persona non solo si senta a proprio agio ma sia in grado di manifestare il potenziale inespresso. Non è questione di denaro, mi dice, posso usare quello che già c’è: giro le poltrone, cambio gli spazi dei quadri, apro i cassetti e trovo delle tovaglie che diventano copriletto. Serve coraggio per cambiare, quando gli altri non ce l’hanno lo trovo io, lo faccio per loro perché poi mi ringraziano e io sono felice.
Nel suo negozio, che è un laboratorio dedicato alla ricerca, Stefania sperimenta un linguaggio estetico fatto di tessuti colorati, di forme sinuose, di pezzi di arredamento dimenticati che con lei riprendono vita e trovano una nuova destinazione.
Parliamo del cibo, ho la sensazione che non ami cucinare e me lo conferma, lo trova quasi noioso e comprendo che non sia semplice costringere il suo impeto creativo tra le righe di una ricetta. Ama l’uncinetto, lo paragona a un salvagente perché serve rigore e quando se ne occupa riesce a pensare solo a quello; guardo la meraviglia di colori che è riuscita a raccogliere in una coperta fatta a mano e ammiro la sua capacità di donare allegria attraverso un semplice pezzo di lana.
Quella di Stefania è una sfida quotidiana, un percorso che porta ad oltrepassare i limiti dell’omologazione, a varcare nuove frontiere; forse era quella l’intenzione racchiusa nella sua prima fuga a Londra. Penso che i confini siano delle linee disegnate dall’uomo, dei divisori creati da chi ha paura di guardare e ringrazio coloro che ci aiutano a varcare la soglia, partendo da quella della nostra casa.
Saluto Stefania e la ringrazio per questa video-chiacchierata, le prometto che tornerò nel suo negozio quando riprenderemo a muoverci con maggiore libertà. Se qualcuno la dipingesse avrebbe bisogno di tanto colore, si potrebbe divertire a costruire uno sfondo fatto da abbinamenti poco convenzionali, dove il fucsia e il viola si sposerebbero al beige passando per l’azzurro. Al centro ci sarebbe tanta luce, quella del suo sorriso.