Mi hanno portata a cena al Manna di Matteo Fronduti, ho mangiato molto bene, in un locale semplice, minimalista nella scelta dell’arredamento, e con un servizio ottimo. Lo chef ha partecipato al nostro convivio. Ci ha accolto, ha chiesto se avevamo domande sul menù ed è passato un paio di volte al tavolo per verificare che fossimo soddisfatti della nostra scelta. Non l’ha fatto solo con noi, è il suo modo di gestire il locale, con tutti gli ospiti si comporta così. Dicevano che fosse un burbero, non sono d’accordo, ho incontrato una persona schietta (questo sì), molto competente e appassionata del proprio lavoro.
Ratatuia Metropolitana: Come mai ha scelto questi nomi per i piatti? Alcuni sono dei riferimenti un po’ datati, ad esempio Kunta Kinte, non so chi se lo ricorda.
[Ndr. Kunta Kinte è il titolo di un piatto a base di radici che ho trovato delizioso.]
Matteo Fronduti: Io me lo ricordo. In ogni caso questa è una cialtroneria.
Lo dice con trasparenza e serietà. Mi chiedo perché abbia voluto utilizzare proprio quella parola per descrivere il vezzo di dare nomi strani ai piatti (ad esempio Uè testinaaa…; Contro il logorio della vita moderna, De sera e de matina…). Leggendo avevo pensato a quelle abitudini tipiche delle osterie, dove si vuole ammiccare al commensale attraverso un titolo evocativo che possa rubare un sorriso. Lui è stato schietto e il sorriso me l’ha rubato.
Alla fine della cena, complice il fatto che fossimo gli ultimi a lasciare il tavolo, si è seduto con noi e ho continuato la conversazione, abbiamo iniziato dandoci del tu.