Amiche

Viaggiavano su un treno regionale con i sedili verdi e appiccicosi, erano nei posti da quattro. Vera sedeva di fronte a Luna, accanto a loro c’erano le valigie. Stavano andando al mare, verso la riviera romagnola che a vent’anni sembrava il paradiso. Luna si raccolse i capelli e li schiacciò dentro al cappello di paglia rosa, lo aveva comprato durante una gita a Barcellona. Le piaceva quella tesa larga che le nascondeva una parte del viso e le consentiva di guardare senza essere vista. Amava osservare le persone, si soffermava su un volto non tanto per guardare ma per immaginare la vita che ci stava dietro, qualcuno se ne accorgeva e le restituiva uno sguardo scontroso, a volte scortese. Con certi individui aveva guadagnato parole poco simpatiche e si era dovuta scusare. Vera lo sapeva e, mentre si alzò per sistemare il telo da spiaggia sul sedile, la guardò e schioccò le dita. Luna capì e levò lo sguardo dalla signora seduta dall’altra parte del corridoio, era attratta dall’acconciatura che sembrava un nido e dalle labbra sottili dipinte di rosso. L’aveva immaginata davanti allo specchio, nel bagno di mattonelle verdi mentre si dipingeva il volto. Si chiese se si trattasse di un incontro galante, forse si recava da un corteggiatore, magari era solo un vecchio zio che stava in una casa di riposo e che vedeva una volta al mese.
“Non è tuo padre.” Vera mise insieme le parole e le disse d’un fiato, prima che Luna facesse domande. Ce l’aveva in gola quella cosa, avrebbe voluto dirgliela al mattino, quando era passata a prenderla e l’aveva vista senza il suo solito sorriso ma guidava sua sorella e non le andava di i iniziare una discussione. Luna raccontava, metteva il protagonista in sicurezza, costruiva gli alibi e Vera ascoltava, era brava e solo lei sapeva quanto quel tipo che faceva gonfiare gli occhi alla sua amica fosse dannoso. Doveva dirglielo prima che arrivassero al mare, prima che la loro vacanza fosse compromessa per colpa di un tizio che non c’entrava niente con una come Luna, lei aveva il sole negli occhi e non le nubi scure che portano i tuoni.
Vera non disse altro, prese la rivista dallo zaino e si mise a leggere la vita dei cantanti o degli attori, di quel genere di persone che trascorrono il loro tempo fra feste e vacanze.
Luna continuò a guardare le persone da sotto il suo cappello facendo finta di dormire. Ci pensò. Tenne quella frase con sé durante la vacanza e anche dopo, quando arrivò a casa e decise che c’era qualcosa da cambiare.
Un giorno s’incontrarono in un bar del centro di Bologna. C’erano stati dei matrimoni, dei figli, dei traslochi, la perdita di un genitore, il divorzio di una sorella, un cambio di lavoro, una sterzata nella carriera, un picco, una depressione e tutto quello che può accadere in vent’anni. Le vacanze al mare insieme erano terminate ma c’erano stati i fine settimana e le domeniche a pranzo nel paese, qualche mezza giornata rubata agli impegni delle rispettive quotidianità e messaggi e telefonate.
“Non è colpa tua.”
Quando Luna sentì quelle parole venire dalla bocca di Vera si ricordò del loro viaggio in treno. Prese la tazza con il caffè americano ci vuotò una bustina di zucchero e mescolò. Bevve un sorso, posò la tazza, la prese di nuovo fra le mani e bevve ancora, rimase per un po’ con le labbra poggiate sul bordo di porcellana e guardò il signore con la barba bianca che stava seduto dietro alla sua amica. Aveva un bel profilo, un naso quasi perfetto e le labbra carnose come quelle del fanciullo di Caravaggio. Forse aspettava qualcuno, e se avesse avuto un appuntamento con un compagno di scuola che non vedeva da trent’anni? Chi sarebbe stato il primo a riconoscere l’altro?
“Grazie.” Disse Luna mentre posava la tazza sul piattino.

Nell’immagine: Chop Suey (1929) di Edward Hopper

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