“È così difficile accettare di stare senza fare niente?” Me l’ha chiesto la mia amica F.; la domanda non era per me ma per gli altri.
Le dicevo che quando sono dal parrucchiere mi rilasso e non ho voglia di parlare, ne approfitto per fare qualche riflessione, quindi amo il silenzio degli altri.
A lei capita la stessa cosa in treno. Viaggia molto e spesso non fa niente in quelle ore, pensa.
“In genere mi sollecitano, la ragazza che fa lo shampoo mi offre una rivista.” Raccontavo a F. sottolineando che se dico di no mi chiedono per tre volte se sono sicura.
“Le persone mi parlano.” Mi ha detto F. precisando che se non legge o non si mette al computer la gente la guarda e inizia a conversare.
Penso ai bambini che incontro nelle sale d’attesa, in fila alla posta o sui mezzi. Li vedo con la faccia sullo smartphone, continuano a compiere operazioni e si muovono. Ricordo quando ero piccola e mia madre mi ordinava di stare seduta e ferma; io lo facevo.
Nell’attesa pensavo, usavo la fantasia e inventavo storie. Guardavo la gente che mi stava intorno e mi divertivo a immaginare le loro vite, questo lo faccio ancora oggi, è un gioco che mi è sempre piaciuto.
“Non siamo più abituati.” Ho risposto a F., non era la mia risposta ma quella degli altri.
Le persone hanno bisogno di intrattenimento; è necessario riempire costantemente uno spazio vuoto, un attimo di attesa, una finestra di “tempi morti”, quelli che s’incontrano sui mezzi di trasporto o ai cancelli per l’imbarco; mentre si passeggia sulla banchina in attesa del treno, in coda alla cassa del supermercato, al cinema, mentre si aspetta che cominci un film.
“A me piace.” Ho risposto a F.
“Anche a me.” Ha detto lei.
“Però gli altri ti guardano.” Ho aggiunto io.
“Con stupore.” Ha precisato lei.
Un tempo prezioso, fatto di minuti utili per programmare, progettare, organizzare ma soprattutto per guardarsi e conoscersi. Forse è per questo che si sfugge?
Nell’immagine: Berlin 1924, di Catherine Abel.