Pace

Guido e Anna e Marco

L'altalenaNon lo conoscevo. Non sapevo nominare il moto che s’impadroniva delle mie gambe e delle mie braccia, era come se delle gemme crescessero all’improvviso, diventando protagoniste di una fioritura inattesa. Me ne stavo seduta ad ascoltare, riconoscevo le note di una canzone segreta e attendevo il punto esatto in cui sentivo di potere spiccare il volo.
Ero piccola e ricordo che assaporavo il momento. Attendevo che mia madre mi lasciasse sola in casa, salivo su una sedia e mi arrampicavo sulla mensola più alta della libreria, dove c’era il piatto dello stereo. Selezionavo il brano e alzavo il volume. Una, due, tre, quattro, cento volte. Posizionavo con cura la puntina per trovare il solco giusto, quello che mi faceva volare. Parlava di Anna e di Marco che cercavano la strada per le stelle, ballavano mentre si scambiavano la pelle e facevano tre salti che, come una catapulta, li portavano fuori dal locale ma anche via, lontano, in un posto che immaginavo illuminato dalla luna piena. Deve essere stato quello il momento in cui ho cominciato a innamorarmi della luna che vedevo lontana ma vicina, dispensatrice di luce nel buio della notte. Da bambina ascoltavo il guizzo e, pur non avendo elementi per definirlo, mi perdevo, avvolta nella gioia, quasi in un senso di beatitudine, in cerca del sogno certa che sarebbe diventato reale.
Oggi ho scoperto il valore di quel salto grazie a Guido. Mi sono avventurata nella Leggerezza descritta da Calvino e ho ritrovato il salto del filosofo, il balzo che Guido Cavalcanti (Sì come colui che leggerissimo era…) fa per sollevarsi sulla pesantezza del mondo*.
Nell’avanti e indietro del mio pensiero ho trovato l’equivalenza tra un gesto remoto e uno recente, mi sono chiesta se Guido, Anna e Marco fossero accomunati dallo stesso desiderio: staccarsi dalla gravità.
Ho raccolto qualche elemento di analisi, per assecondare quell’immagine che prendeva spazio e continuava a rimbalzare fra i secoli. Le gesta di Guido vengono narrate nel Decameron da Boccaccio che lo scrisse nel 1349, anno successivo alla peste nera, una pandemia che proveniva dall’Asia e aveva afflitto i Paesi dell’Europa. Anna e Marco fu scritta da Lucio Dalla nel 1979, l’anno della grande crisi energetica.
È come se le due epoche fossero la crasi del presente, una mescolanza di flagelli che affliggono l’uomo solcando i confini della nazione e dell’individuo. La leggerezza è ossigeno e vorrei avere sotto ai piedi molle così potenti da consentirmi di volare, come avevano fatto Guido, Anna e Marco che oggi considero amici, pionieri del balzo che resta un esempio, necessario antidoto alla gravità.
È possibile volare, qualcuno l’ha già fatto, lo posso fare anche io e lo possiamo fare tutti. Immagino di andare in alto dove i pensieri sono limpidi, dove esiste un punto che unisce gli amici, le persone e le nazioni.

sì come colui che leggerissimo era,
prese un salto e fussi gittato dall’altra parte,
e sviluppatosi da loro se n’andò.
[Decameron, Giovanni Boccaccio, VI, 9 –1349] 

Si guardano e si scambiano la pelle e cominciano a volare
Con tre salti sono fuori dal locale
Con un’aria da commedia americana
Sta finendo anche questa settimana
[Anna e Marco, Lucio Dalla 1979]

 

*[Cit. Italo Calvino, Lezioni Americane – La Leggerezza]

Nell’immagine: Honoré Fragonard, L’altalena (1767)

Villa Invernizzi

Villa_InvernizziPasso spesso per via Cappuccini. La percorro in bicicletta più volte alla settimana, mi piace passare per piazza Duse, girare a sinistra e poi subito a destra e ancora a destra per arrivare in corso Venezia. In quel percorso guardo in alto e ammiro i palazzi di una Milano ottocentesca. Il passaggio davanti al giardino di villa Invernizzi è un’abitudine e confesso che con un gesto meccanico, senza rallentare, guardo attraverso il cancello per controllare se sia vera la storia che raccontano sui fenicotteri rosa. Fino ad oggi non li avevo mai visti e nel tempo ho pensato spesso che fosse un’invenzione. Ho immaginato a una leggenda costruita per i bambini ma nel pomeriggio ho dovuto ricredermi. Passavo in bicicletta, ho fatto il solito gesto meccanico e i miei occhi hanno colto qualcosa di diverso. L’elaborazione è stata ritardata tanto che, già in via Serbelloni, ho inchiodato e sono tornata indietro. Allora li ho visti, nel loro splendore valorizzato dalla calma e dalla tranquillità in cui si muovono, in un giardino ben curato che fa venire voglia di entrare per perdersi. Avrei voluto essere così sottile da passare tra le maglie del cancello di ferro per andare a sedermi sotto a uno degli alberi secolari, avrei atteso, sicura che in quel luogo il tempo perde di significato.