L’altra sera sono arrivata in Stazione Centrale, era tardi e avevo sulle spalle una pesante giornata di lavoro. La luce mi dava fastidio e ho indossato gli occhiali da sole. Camminavo facendomi spazio fra la folla con l’obiettivo di andare dritta all’uscita; pensavo al tepore di casa, al desiderio di lavare via la giornata e alla voglia di stendermi per rilassarmi e pensare ad altro.
Ho utilizzato le scale, quelle che portano all’atrio centrale della stazione, e quando sono arrivata in fondo tre ragazzi con accento francese mi hanno avvicinata e mi hanno chiesto se fossi Veronique.
Ho detto di no e sono andata avanti, è stata una risposta d’impulso, me ne sono pentita. Ho perso un’occasione, non dico che avrei voluto mentire ma mi sarebbe piaciuto scoprire di più di loro e di Veronique. Chi è questa donna? Quanti anni ha? Da dove viene? Come si veste? E ancora: che cosa ha spinto quelle persone a pensare che fossi io la Veronique che aspettavano? E se avessero avuto delle cattive intenzioni? Tante domande che mi sono rimaste in testa durante il viaggio verso casa. L’indomani, al risveglio, ho pensato di nuovo a Veronique, mi sono detta che la mia forte tendenza a romanzare le storie mi porta a esagerare. Eppure ho la sensazione di avere perso un’occasione, continuo a pensarci, forse avrei dovuto riflettere e non dare una risposta d’impulso. Ha vinto il senso di auto protezione, lo schermo che ci si mette verso il mondo per difendersi dagli sconosciuti. Ci penso ancora, mi dico che se dovesse capitare di nuovo potrei agire diversamente. Chissà che volto ha Veronique, di certo mi sarebbe piaciuto conoscerla.