Faccio una professione nella quale mi bastano tre elementi: un computer, una connessione a Internet e uno smartphone. Grazie alla tecnologia posso collegarmi con gli altri tramite una delle tante piattaforme di comunicazione ed è come essere nella stessa stanza. Le riunioni da remoto (così le chiamiamo) le facciamo da tanto tempo, condividiamo documenti e piani di lavoro ed è molto utile per limitare i tempi poco produttivi, quelli di spostamento, che si hanno durante le trasferte.
Nell’ultima settimana, come molti milanesi, ho sperimentato il lavoro da casa e confesso che ho desiderato rientrare in ufficio. Nelle giornate di “smart working” ho trascorso quasi otto ore a parlare ad una macchina con gli auricolari nelle orecchie e alla sera, oltre al mal di testa, ho riscontrato un certo stato confusionale. Mi sono resa conto di quanto il mio sia un lavoro di relazione, di dialogo, di confronto; ho capito che mi stanco di meno ad andare in ufficio, a fare trasferte ad ascoltare decine di persone.
Nel capitolo personale c’è stata una sorta di clausura. Ho sentito molti amici al telefono, incrementando le ore trascorse con gli auricolari nelle orecchie, ho dedicato molto tempo ai messaggi nelle chat, ma abbiamo evitato di vederci, un po’ perché non si poteva fare niente (no cinema, no teatro, no aperitivo, no mostre, no palestra, no associazioni culturali) un po’ per prudenza. Qualcuno, forse più temerario, mi ha proposto di andare in pizzeria. Ho accettato sentendo quell’emozione per la mondanità che avevo ai tempi delle medie, quando l’uscita domenicale presso la pizza al taglio del paese era l’unica cosa concessa dai genitori.
Riflettendo su questa lunga settimana ho compreso di essere un animale sociale, ho bisogno di relazionarmi con il prossimo e amo farlo senza l’intermediazione di macchine, computer o telefoni che siano. Ho anche bisogno di entrare nella bellezza, di trovare un alimento nell’arte o nelle manifestazioni culturali che questa città è in grado di proporre. Mi piace condividere, amo lo scambio dialettico con gli amici che amano le stesse cose o che le odiano e che mi possono dare un differente punto di vista. Questo mi serve quando sono sola, faccio scorta di cibo culturale per poi gustarlo nella tranquillità dei momenti con me stessa. Il processo fa evolvere, arricchisce perché modifica e toglie la persona dalla stasi a cui porta spesso la quotidianità. Ho messo impegno nella ricerca dell’aspetto positivo di questa vicenda e credo che il plus sia la consapevolezza, il sentire di essere un po’ cambiati. Apprezzerò le giornate in ufficio quando ci tornerò, elargirò molti più sorrisi ai colleghi, mi commuoverò davanti alle opere della prossima mostra, andrò a teatro, ci sono andata poco ultimamente, abbraccerò per qualche minuto gli amici quando li vedrò…ovviamente a quarantena conclusa.
Amici
Il trucco
“Aspetta, metto gli occhiali.” Il mio amico G. lo disse mentre infilava le lenti scure di una montatura in voga nei primi anni novanta e diventata iconografica.
“Non sono miei.” Aggiunse G. dopo essersi messo comodo sulla sedia.
“Li ho rubati a lui.” Lo disse indicando il nostro amico A. che stava parlando al telefono.
“Puoi ripetere?” Me lo chiese G., voleva che gli facessi di nuovo la domanda o forse voleva avere ancora un po’ di tempo per trovare la risposta.
“Sei felice?” Gli chiesi io mentre tenevo in mano il bicchiere con il prosecco.
Non ci vedevamo da tempo, ci eravamo incrociati, avevamo fatto chiacchiere di lavoro al telefono ma non avevamo mai parlato. Io lo vedevo felice, aveva un’aria di pace e volevo sapere il trucco.
“Dalla.” Disse G. “È questo il trucco. Dalla sempre, con chiunque.” Proseguì dietro agli occhiali.
Rimasi a pensare per qualche istante. Sapevo che il significato era diverso da quello che s’intendeva al liceo.
“Vuoi dire che è bello fare qualcosa per gli altri?” Chiesi io.
“Voglio dire darsi, donarsi, pensare all’altro prima che a te. Sei disposta?”
“È bello?” Chiesi a G.; volli approfondire, mi fece degli esempi. Mi parlò dei tre figli, della moglie, dei suoceri e aggiunse qualcun altro nella lista. Parlò di persone estranee, di quelle che incontrava al bar al mattino o sul treno a fine giornata.
“Ridammi i miei occhiali.” Urlò A. dopo avere finito la sua telefonata.
G. tolse le lenti nere, vidi gli occhi sinceri, sorrise e ricordai quello che mi mostrò quindici anni prima, quando ci presentammo.
“Sono un pezzo raro, hanno più di vent’anni.” Disse A. prendendo gli occhiali e poggiandoli sulla testa.
Ci alzammo in piedi e andammo verso il tavolo dove gli amici ci aspettavano per cena.
“Ci vuole consapevolezza?” Chiesi a G.
“Per darla?” Mi chiese lui.
“Credo che sia necessario farlo con volontà.” Precisai io.
“L’importante è fare qualcosa per gli altri. Hai mai visto come sono felici?” Mi disse G.
Ripensai alle volte in cui avevo ceduto o a quando avevo fatto una sorpresa; avevo visto la gioia nell’altro, mi piaceva quella sensazione.
Nella foto: Marcello Mastroianni nel film 8 ½.